“Figlio, perché ci hai fatto questo?”. La domanda accorata di Maria non va interpretata tanto come un rimprovero al dodicenne che si è smarrito, sottraendosi all’improvviso allo sguardo dei suoi. Per comprendere il senso di stupore e di oscuro presagio della madre va colto piuttosto il contesto che è quello della festa di Pasqua e quel riferimento ai ‘tre giorni’, in cui lo cercano invano. In effetti, il pellegrinaggio annuale delle famiglie a Gerusalemme per la Pasqua rientrava nelle usanze ebraiche. La partecipazione del giovane Gesù, nell’anno che precede il riconoscimento della maturità fissata a quel tempo a tredici anni, rende comprensibile anche la sua permanenza nelle adiacenze del tempio, dove i maestri tenevano le loro lezioni sulla legge religiosa per i giovani che dovevano essere riconosciuti adulti, con il diritto di leggere la torah nella sinagoga. Gesù sta per diventare maggiorenne e perciò nel tempio partecipa alla discussione, ascoltando e ponendo domande come nel metodo in uso nelle scuole rabbiniche. Bar mitzwah, ‘figlio del precetto’ era considerato il maggiorenne che era tenuto all’osservanza della legge.
La domanda di Maria è fatta insieme a Giuseppe, non senza aver ribadito che insieme lo stanno cercando. “Ecco, tuo padre ed io angosciati ti cercavamo”. Come a dire che sono una coppia matura e coesa che non scarica sul figlio le proprie tensioni, ma semmai scarica su di sé le tensioni generate dal figlio. Ma quel che più conta è questa domanda che lascia intuire il mistero di quel figlio. La famiglia nasce da questa sospensione che produce una tensione e una attenzione che allarga il cuore dei due verso una dimensione più ampia che non è il semplice rapporto di coppia. Questo è il presupposto, ma non è il fine della coppia. Se c’è un aspetto oggi che della famiglia va ritrovato è la correlazione tra amore della coppia e amore dei figli. Non è quest’ultimo che genera l’amore dei due, ma semmai il contrario. E’ l’amore maturo e responsabile della coppia che crea le condizioni per accogliere un figlio, un cucciolo di uomo. Non è forse strano che oggi si siano invertite le cose? Si sta insieme, spesso senza alcun vincolo reciproco, salvo all’apparire dei figli chiedersi se non è il caso di regolarizzare la situazione? Ma sono i figli a dover portare il peso della scelta? O non dovrebbe essere il contrario e, cioè, essere i figli lo sviluppo naturale di un amore maturo e coeso che trabocca nella generazione?
C’è un altro aspetto del racconto. Gesù mostra di essere maggiorenne per il tono della sua risposta. “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del padre mio?”. A questa risposta Maria e Giuseppe vacillano e ci vorrà del tempo perché ne diventino consapevoli fino in fondo. Di che si tratta? Di una presa di distanza del giovane che vuol tagliare i ponti dalla famiglia? E’ forse simbolicamente l’uccisione dei genitori naturali per aprirsi alla vita in libertà? Niente di tutto questo. E’ la presa d’atto che per crescere bisogna sottrarsi al senso di possesso e di dominio in cui si cacciano gli affetti più genuini. Il riferimento al ‘padre mio’ dice non solo l’identità misteriosa del Messia, ma anche un’appartenenza radicale che va oltre i legami di sangue. In effetti, il rischio che la famiglia diventi un grembo chiuso e pretenzioso c’è sempre. Il familismo amorale nasce da qui! Non solo nei casi di genitori iperprotettivi che poco lasciano spazio ma anche nella pretesa di voler configurare, influenzare, determinare, il futuro dei figli. Magari proiettando su di essi le nostre inconsistenze e i personali sogni infranti. Gesù si sottrae a questa presa, ribadendo che l’amore autentico è quello che mette l’altro nella condizione migliore per esprimere le proprie potenzialità. In questo senso, senza dover arrivare alla vecchiaia, bisogna ancor prima capire che i figli sono di Dio cioè appartengono a se stessi.
Il brano si conclude con il riferimento rassicurante a Gesù che “poi partì con loro per tornare a Nazaret, ed era loro sottomesso… Gesù cresceva in sapienza e statura e nel favore davanti a Dio e agli uomini”. Neanche Gesù si sottrae alla dinamica per cui si diventa uomini e non si nasce già belli e fatti. La crescita è la legge della vita e riguarda non solo il fisico, ma anche la ‘sapienza’ cioè il gusto della vita e la ricerca religiosa che fa sperimentare il favore di Dio. La famiglia è essenziale, al di là delle sue trasformazioni sempre in atto, perché per crescere abbiamo bisogno degli altri, non si nasce imparati e non va abbandonato nessuno, ma accompagnato fedelmente. E la ragione è che siamo tutti figli! Anzi, come dice la prima lettera di Giovanni: “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato”.
Riscopriamo così perché la famiglia ci è necessaria. Quali sono i suoi caratteri, le sue condizioni, i suoi obiettivi. C’è una sola risposta che li sintetizza tutti: la famiglia è per i figli. E figli lo siamo tutti, anche se non tutti padri e madri secondo la carne. Per questo alla fine un’altra domanda resta. Non quella che risuona frequentemente “Che mondo lasceremo ai nostri figli? Ma una ancora più inquietante e decisiva: “A quali figli lasceremo il mondo?”.
0 commenti