di Alfredo Dionisi
Esattamente duecento anni fa, tra il 7 ed il 9 marzo 1821, Rieti ed Antrodoco furono teatro della
prima battaglia del Risorgimento Italiano.
Tra i patrioti che presero parte agli scontri vi furono lo scrittore abruzzese Gabriele Rossetti, giunto
da Vasto, sua città natale, assieme ad un battaglione di volontari civili, ed il frusinate Nicola
Ricciotti, che sarebbe divenuto di lì a qualche tempo luogotenente di Giuseppe Garibaldi nonché
suo fidato amico. Lo stesso Massimo D’Azeglio, primo ministro sabaudo durante la prima guerra
d’indipendenza, aveva chiesto di essere arruolato, ma l’esercito costituzionalista napoletano ne
declinò la richiesta non accettando volontari al di fuori del Regno.
Gli ideali illuministici sintetizzati dal “trinomio” libertà, eguaglianza e fratellanza, dai quali nel
1789 scaturì la Rivoluzione francese, erano penetrati nella nostra Penisola con gli eserciti
napoleonici, e se, inizialmente, avevano infiammato le élites intellettuali, aristocratiche e borghesi,
intorno agli anni venti del XIX secolo cominciavano a diffondersi anche nelle fasce popolari.
Quali furono gli eventi che fecero da prologo alla battaglia?
A seguito del pronunciamento di alcuni reparti dell’esercito spagnolo a Cadice, re Ferdinando VII
nel gennaio del 1820 era stato costretto a ripristinare la Costituzione emanata nel 1812 dopo la
caduta di Napoleone ed abolita nel 1814. Ciò produsse una tale ondata di entusiasmo negli ambienti
carbonari napoletani che il 2 luglio 1820, all’indomani della ricorrenza di San Teobaldo di Provins,
patrono dei carbonari, due ufficiali di cavalleria di stanza a Nola, Michele Morelli e Giuseppe
Silvati, ed il prete carbonaro Luigi Minichini, seguiti da circa 130 uomini e 20 ufficiali, insorsero
dirigendosi a Napoli col vessillo carbonaro azzurro, rosso e nero, al grido di “Viva il Re!”, “Viva la
Costituzione di Spagna!”.
Giunti ad Avellino il 3 luglio, Morelli, Silvati e Minichini furono accolti dalle autorità cittadine,
rassicurate dal loro intento di non rovesciare la monarchia borbonica. Quindi, dopo aver trasferito i
poteri nelle mani del colonnello De Concilij, capo di stato maggiore del generale Pepe, il 5 luglio
entravano a Salerno. Nel frattempo le rivolte divampavano anche in Sicilia, con la rivendicazione
della Costituzione e di un regno separato da quello partenopeo, e a Napoli, dove Guglielmo Pepe
era riuscito a raccogliere diverse unità militari.
Pressato dagli eventi, il 6 luglio Ferdinando I emanava un editto col quale prometteva di concedere
la Costituzione nei successivi otto giorni. Dopo l’entrata a Napoli dell’esercito carbonaro, il 13
luglio il Sovrano promulgava la Costituzione, giurando sul Vangelo di rispettarla e comunicando
alle potenze europee che si fossero dichiarate contrarie di essere pronto a difenderla ad ogni costo.
Messa in allarme dai moti napoletani, l’Austria, che dal Congresso di Vienna era uscita come
custode dell’ordine in Italia, si adoperò in tutti i modi per vanificare le conquiste liberali. Il principe
Metternich, dapprima col Congresso di Troppau (23 ottobre 1820) e poi con quello di Lubiana
(1821), raccolse il consenso internazionale per una spedizione volta a ristabilire la situazione a
Napoli e ad impedire che i moti rivoluzionari potessero estendersi anche agli altri Stati.
Per dar conto del cedimento di fronte alle istanze rivoluzionarie, al Congresso di Lubiana venne
convocato, ad audiendum verbum, anche Ferdinando I, il quale, benché fosse partito da Napoli col
solenne giuramento al Parlamento di difendere la Costituzione, una volta alla presenza del
Metternich, chiese all’Austria di intervenire militarmente per ristabilire la monarchia assoluta nel
Regno delle Due Sicilie, dimostrandosi spergiuro.
Il 15 gennaio 1821 Metternich, con un secco ultimatum, intimava ai Napoletani di abrogare tutti gli
atti “eversivi” posteriori al 6 luglio 1820. Quindi, senza attendere la risposta degli ambasciatori
partenopei e approfittando di una neutralità del Papa più formale che sostanziale, il 4 febbraio 1821
ordinò al generale Johann Maria Philipp Frimont di varcare i confini dello Stato Pontificio e di
dirigersi verso il Regno delle Due Sicilie.
Ai primi di febbraio 1821 l’esercito austriaco varcava il Po con 52.000 soldati. Una divisione
(comandata dal generale Wallmoden) marciò su Ancona e di lì, via Tolentino, raggiunse Foligno,
Terni e Rieti. Altre tre divisioni (comandate dai generali Wied-Runkel, Assia-Hamburg e Lederer)
passando per Arezzo e Perugia si portarono a Terni, a Foligno e a Rieti. L’ultima (quella delgenerale Stutterheim), passando per Empoli e Siena, si portò a Tivoli. Quattro divisioni su cinque
puntavano, dunque, ad invadere l’Abruzzo.
Il 21 febbraio le truppe dell’avanguardia napoletana entrarono a Rieti.
Il generale Frimont, che nel frattempo aveva raggiunto Foligno, il 21 febbraio diede ordine al
generale Villata, comandante della prima brigata, di dirigersi verso Rieti per occupare la città e
liberarla dalle truppe napoletane. Villata, che entrò a Rieti il 27 febbraio con 6.000 uomini, quando i
Napoletani avevano ormai lasciato la città e s’erano ritirati a Cittaducale, dispose le truppe nei
pressi di Colle san Mauro e della spianata di Campomoro, a presidio delle rive del fiume Velino.
Sarebbe stato opportuno concentrare le forze sul fronte reatino a sostegno del generale Pepe, ma
Carrascosa, che comandava tutte le operazioni, non concesse i necessari rinforzi.
Pepe aveva chiesto, senza successo, due battaglioni di fanteria e due squadroni. Aveva inoltre quasi
2.000 legionari privi di fucili; inoltre, a causa del freddo e della scarsezza degli
approvvigionamenti, numerosi furono i casi di diserzione nelle file del suo esercito. Si trovò
dunque costretto a fronteggiare con mezzi di fortuna l’intero schieramento austriaco. Ma non si
perse d’animo. Anzi, viste le difficoltà, sviluppò un piano assai audace: attaccare con tutte le sue
forze l’avanguardia austriaca capeggiata da Villata e forte di 6.000 uomini, per ricacciarla verso
Terni; quindi, in rapida successione, attaccare l’altra brigata austriaca, anch’essa di 6.000 uomini,
che stazionava a Contigliano, nella contrada case Vicentini; infine attaccare i 2.500 Austriaci che
erano dislocati a Piediluco a protezione delle due divisioni di Rieti e Contigliano.
Pepe, col suo capo di stato maggiore, Carretto, pianificò accuratamente la strategia, decidendo di
dividere le forze in tre colonne.
La prima colonna, affidata al generale Montemajor e composta da circa 7.000 uomini, dopo aver
superato il ponte sul fiume Velino presso Cittaducale, avrebbe percorso la strada vicinale che
portava a Casette e di qui, oltrepassato il ponte sul fiume Salto, avrebbe occupato le alture di
Campomoro, Sala e Sant’Antonio al Monte. Lo stesso Pepe, all’alba, avrebbe dovuto attaccare gli
Austriaci di Villata dal lato di Porta Romana. La colonna di centro, comandata dallo stesso Pepe,
avrebbe dovuto assalire frontalmente le forze austriache che si trovavano dalla parte della strada di
Cittaducale. Infine, la terza colonna, comandata dal generale Russo, avrebbe dovuto occupare
Castelfranco e i colli dell’Annunziata.
Il piano era impeccabile, ma presupponeva prontezza e puntualità d’intervento. Invece il generale
Montemajor, che disponeva delle forze più ingenti e che, secondo i piani, avrebbe dovuto sferrare
l’attacco alle sei del mattino, indugiò fino alle dieci, procedendo in modo talmente lento ed indeciso
che gli Austriaci non ebbero bisogno di rinforzi.
Fu la colonna affidata a Pepe che, alle undici del 7 marzo, sferrò l’attacco all’asse portante del
fronte austriaco. Il reparto di cavalleria austriaco ed i 1.500 fanti che si trovavano sulla via Salaria
per Cittaducale furono costretti a ripiegare su colle San Mauro, così consentendo ai Napoletani di
impadronirsi di colle Lesta e del casino Stoli da dove cominciarono a cannoneggiare gli Austriaci
che erano in porta d’Arce con due pezzi d’artiglieria. Mentre Pepe operava al centro, Russo vinceva
la resistenza nemica progredendo verso Castelfranco.
A questo punto, gli Austriaci misero in atto un capolavoro tattico, dividendo la brigata che si
trovava dentro Rieti in quattro colonne. Una colonna di 1.000 uomini uscì da porta Romana
minacciando Montemajor dal fianco sinistro; il centro fu rafforzato da altri 1.000 uomini muniti di
sei cannoni; un’altra, colonna uscendo da porta d’Arce, costeggiò colle San Mauro per cogliere di
sorpresa le truppe costituzionali che avevano occupato il colle Lesta; infine, due colonne di 1.000
uomini si diressero sui colli di Castelfranco per contrastare l’azione del generale Russo.
Per dar manforte alla colonna di Russo, Pepe inviò il colonnello Casella con 1.300 soldati, senza
però riuscire a risollevare le sorti della contesa.
Nel frattempo, da Contigliano e da borgo Vicentini le truppe della brigata Geppert, superato il ponte
sul Velino in località Scafa (in prossimità della confluenza col fiume Turano), si diressero nella zona
di Quattro Strade e di lì si divisero in due colonne: l’una diretta a Castelfranco; l’altra verso porta
Cintia, a sostegno delle truppe di Villata.Le manovre austriache, che avevano costretto Russo a ripiegare sul lato destro della via Salaria
(direzione Cittaducale-Rieti) e Casella su Cantalice, indussero Pepe a battere ritirata. Mentre le
colonne costituzionali posizionate a nord e a sud davano esecuzione all’ordine, gli Austriaci
contrattaccarono al centro, presidiato da Pepe; ma i partenopei seppero validamente respingere
l’attacco.
Per impedire che gli Austriaci violassero i confini del Regno di Napoli, Pepe diede ordine
all’esercito napoletano di ripiegare su Antrodoco con la protezione dell’artiglieria del capitano Ruiz.
Durante la ritirata, però, le truppe partenopee furono inspiegabilmente prese dal panico e
cominciarono a disperdersi. Gli Austriaci, colti di sorpresa, cercarono di approfittarne, ma il
generale Russo, con 4 cannoni, 300 cavalli e 600 soldati, riuscì ad infliggere loro gravi perdite.
A questo punto, Pepe si fermò a Cittaducale da dove emanò l’ordine di raccogliere tutti i soldati che
s’erano sbandati perché fossero condotti ad Antrodoco.
Nel frattempo, il colonnello partenopeo Liguori riuscì a cogliere di sorpresa l’avanguardia del
distaccamento austriaco che stazionava a Piediluco avendo inizialmente la meglio; ma non appena
entrarono in gioco tutti i 2.500 effettivi di cui disponeva in loco l’esercito austriaco, fu respinto ed
inseguito. A memoria di tale episodio qualche anno più tardi, nei pressi del casale Stoli, in contrada
Valle Oracola, fu eretta una lapide – andata successivamente distrutta – che recitava: Hic ceciderunt
in bello pauci fortes Naepuletani atque Teutonici.
Alle ore 11 del 9 marzo il generale austriaco Wallmoden mosse alla volta di Antrodoco, alla cui
difesa era il generale napoletano Russo con 1.000 fanti e 300 cavalli. Le forze austriache erano in
tale superiorità numerica che riuscirono a rompere la difesa avversaria nei pressi del passo Vignola
senza difficoltà.
Secondo i piani austriaci, mentre la brigata capeggiata da Geppert avrebbe dovuto portare un
attacco frontale alla difesa nemica, l’altra si sarebbe dovuta dividere in due colonne, a destra e a
sinistra della via Salaria, nel tentativo di aggirare ai fianchi la difesa napoletana.
Mentre la colonna di destra raggiunse facilmente l’obiettivo di Madonna delle Grotte, quella di
sinistra completò la manovra più lentamente per l’accanita resistenza messa in atto dai
costituzionalisti.
Nel frattempo, nei pressi di Borghetto (oggi Borgovelino), la brigata di Geppert sferrò un attacco
contro i Napoletani e li costrinse a ritirarsi ad Antrodoco, dove, protetti dall’artiglieria del castello,
resistettero fino al pomeriggio inoltrato, prima di ritirarsi dalla parte opposta.
Il 10 marzo gli Austriaci, preso il controllo della Madonna delle Grotte, mossero verso l’Aquila,
dove giunsero verso sera. La mattina dell’11 marzo l’ultimo baluardo napoletano si arrese presso il
castello di Antrodoco.
Negli scontri cadde valorosamente il colonnello Nicola Mascioletti, originario di Antrodoco, nei
pressi del ponte che ancora oggi porta il suo nome.
Il generale Angelo D’Ambrosio guidò l’estrema resistenza delle truppe costituzionali nella fortezza
sul Volturno e fu poi costretto a firmare la resa il 20 marzo.
La mattina del 24 marzo, Frimont, scortando re Ferdinando, entrava a Napoli da via Toledo, accolto
pacificamente dalla popolazione. A nulla valsero le proteste del deputato napoletano Poerio e di altri
26 deputati, che denunciarono l’Austria per violazione del diritto delle genti: tutte le conquiste della
rivoluzione napoletana del 1820 furono vanificate.
Dopo due mesi, re Ferdinando revocò la costituzione e affidò al ministro di polizia, il principe di
Canosa, il compito di catturare tutti coloro che erano sospettati di cospirazione. Tra questi vi fu
anche il giovane Vincenzo Bellini, allora studente presso il Real collegio della Musica presso il
convento di San Sebastiano di Napoli, il quale ritrattò la propria aderenza ai moti con la caduta di
ogni accusa.
Ferdinando I ricompensò il generale Frimont col titolo di Principe di Antrodoco attribuendogli il
rango di generale di cavalleria e l’ingente somma di 220.000 ducati. Morelli e Salvati vennero
processati e fucilati nel 1822, mentre il generale Guglielmo Pepe fu costretto ad espatriare in
Spagna. Ma sarebbe nuovamente tornato alla ribalta durante i moti insurrezionali del 1848.
Molto interessante e completo.