DADO LOMBARDI, LO SPAREGGIO DI PESARO E QUELLE BRAGHE LISE E BUCATE

Gen 23, 2021 | Basket | 0 commenti

RIETI – “Dado Lombardi ci ha lasciati!”. La (brutta) notizia la apprendo da face book. Come sempre più di sovente accade, sono i social a relazionarci con il mondo. Improvvisamente quel piacevole torpore che ti avvolge dopo la cena, dopo l’ennesima settimana di lavoro e di fatica, scompare. Un sottile tremore avvolge le membra, un morso giunge fino allo stomaco. E’ un attimo, è un momento. La ragione prende il sopravvento. Soprattutto la contezza della realtà. Come della natura umana, ineludibilmente votata a nascere e a morire. Dado Lombardi se n’è andato. Con lui, tramonta ancora un pezzo importante della nostra esistenza. Di tutti quei reatini che, ormai con i capelli bianchi, hanno vissuto l’indimenticabile epopea della Sebastiani. I ricordi che serbo, di Dado Lombardi, sono ancora sufficientemente nitidi anche se si perdono nella memoria storica, un po’ fumosa, scolorita dall’inesorabile trascorrere del tempo di quello che, nel 1973 – anno della prima promozione in serie A – era poco più che un bambino. Avevo soltanto 11 anni quando, il 29 giugno di quasi 50 anni fa, mio padre Ottorino mi portò con se a Pesaro, per assistere allo spareggio contro la Ivlas Vigevano che regalò la “prima”  serie A alla città di Rieti. Lombardi era giunto alle pendici del Terminillo sul finire di una carriera fulgida che lo vide eletto tra i migliori cestisti nella Olimpiade di Roma del 1960. Renato Milardi, il presidente della Sebastiani, indiscusso dominus dell’irripetibile eldorado cestistico amarantoceleste, lo volle a Rieti. Perché l’intento del Dott. Milardi era quello di rendere nota la sua città, di guisa che nessuno dovesse più attribuire la targa di una macchina che iniziava con “RI” a Rimini, bensì a Rieti. Il progetto di Milardi trovò in Dado Lombardi il perfetto mentore. Dado era un personaggio unico. Grande e grosso, buona forchetta, burbero come tutti i toscani, intelligente, agonisticamente cattivo, furbo come una volpe, egli giunse a Rieti e, subito, fu idolatrato come una sorta di divinità. All’epoca i mezzi d’informazione erano scarni. La connettività con il resto del mondo, Rieti poteva viverla soltanto grazie alla Rai che aveva due canali; il grosso lo faceva ancora la radio, sempre e soltanto con mamma Rai; i giornali, la carta stampata recitavano il ruolo principe di grandi comunicatori; il telefono era quello di casa; le vie di collegamento lasciavano (molto) a desiderare. Ciò, probabilmente, spiega l’enorme interesse che l’avvento di Lombardi e, poi, la crescita esponenziale della Brina e del fenomeno-basket ebbero a Rieti come sugli abitanti della nostra cittadina. La pallacanestro vissuta come mezzo di rivalsa, come strumento di affermazione e di emancipazione da una realtà contadina, montanara, di mero isolamento. Io, come tutti i bambini di quella generazione, m’innamorai del basket. Rieti e la pallacanestro, la pallacanestro e Rieti: fu un colpo di fulmine! I canestri spuntavano da ogni dove: nelle piazze, nelle strade, appesi ai terrazzi delle abitazioni. Pure un semplice cerchio faceva alla bisogna. Cominciai a giocare nel tentativo di emulare le gesta dei giganti del basket anche se il fisico ed un’altezza decisamente inadeguata non mi supportarono. La buona volontà e la passione, da sole, non potevano bastare. Però, come tutti, ero avvinto da quello sport meraviglioso, praticato da super atleti e, poi, da quel gigante-buono che era Gianfranco Dado Lombardi. Umile, buono e disponibile come soltanto un vero uomo di sport è capace di essere, non di rado Dado, giocatore ed allenatore della prima squadra, “scendeva” al livello di noi, centinaia e centinaia di ragazzini di tutte le età, invaghiti da quella magica palla a spicchi. Ci dedicava ore del suo tempo, seguiva i nostri allenamenti, regalava consigli e suggerimenti preziosi. Poi, alla domenica, era sul rettangolo di gioco, a capo di quei “dieci leoni” – come recitava l’inno dedicato alla Brina – per dispensare perle della sua classe. La corsa verso la promozione in serie A alla quale tutti, in città, guardavano con certezza, s’interruppe inopinatamente. Vigevano, complici gli infortuni occorsi nel riscaldamento pre-gara del match decisivo proprio a Lombardi e ad Altobelli, riuscì a strappare la vittoria, per un solo punto. Vigevano violò il “nostro” palazzetto, quello di piazzale Leoni, costruito con grande, sollecitata solerzia da mio zio, Claudio Dell’Uomo D’Arme, imprenditore edile tra i più affermati dell’epoca e, poi, per molti anni socio e dirigente della AMG Sebastiani. La sconfitta fu dolorosissima. Io, bimbetto o poco più, ebbi uno scoramento, una vera e propria crisi di nervi dalla quale mi scosse mio padre. Tutto fu rimandato allo spareggio-promozione che ebbe luogo a Pesaro, il 29 giugno del 1973. Andammo io e lui, con la macchina. Papà possedeva una Citroen Pallas nota anche come “Lo squalo” per la sua forma simile al grande predatore dei mari. All’epoca mio padre, Ottorino, lavorava presso la redazione reatina de Il Messaggero con grandi “penne”, colleghi ed amici carissimi ormai scomparsi: Pietro Pileri che, affettuosamente, chiamavo “zio Pietro”; Giuseppe “Peppe” Rosati, papà del fraterno amico Fabrizio e Sergio Cacciagrano, genitore di Daniela e di Andrea, che era la “firma sportiva” della redazione. Sono rimaste celebri le radiocronache di Sergio, inviato di turno nelle lunghe trasferte della Brina che narrava le partite da un telefono fisso, a bordocampo; la sua voce, grazie agli altoparlanti, poteva essere ascoltata dalle migliaia di tifosi che sempre si accalcavano nella piazza. Di quella trasferta a Pesaro ho ricordi confusi: tantissimi pullman, migliaia di tifosi, automobili al seguito nel caldo intenso di una bella giornata estiva. Papà, che era chiamato a celebrare per Il Messaggero le gesta dei giganti della Brina con interviste e articoli di colore, aveva appuntamento con l’amico Dado, prima della partita. Ci recammo presso l’albergo della squadra. Lombardi era nella sua camera, ci fece salire e ci accolse affettuosamente. Era molto caldo, non esistevano i condizionatori, soltanto un grosso ventilatore. Papà e Dado parlarono a lungo, amichevolmente, affettuosamente. Di quell’incontro mi colpì il rituale pre-gara di Lombardi che, come larga parte dei grandi atleti, era pure un inguaribile scaramantico. Dado cercò e raccolse dalla sua valigia un paio di mutande, erano lise ed anche bucate. Rammento le sue parole. “Questa sera, prima della partita con Vigevano indosserò sotto i pantaloncini da gara queste mutande – disse Dado a mio padre – mi hanno accompagnato nei momenti più importanti e vincenti della mia carriera. Lo so, dovrei gettarle, ma non ne ho mai avuto il coraggio. E’ vero, sono impresentabili, però non si vedono – proseguì ridendo sonoramente, come era solito fare con quel suo vocione – e poi, con queste, non ho mai perso, quindi stasera vinceremo”. La Brina vinse e la città celebrò la prima, storica conquista della serie A. Ebbe inizio l’epopea della Rieti dei canestri che oggi trova nuova linfa nella Npc come nella Real Sebastiani. Sono trascorsi quasi 50 anni da allora. Il basket, sia pure tra alti e bassi, è nel dna dei reatini e Gianfranco “Dado” Lombardi è ricordato tra i principali artefici di questa bellissima storia di vita. Grazie Dado! Riposa in pace. (Valerio Pasquetti)

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